Da quasi un anno, ormai, il termine “crisi” risulta all’ordine del giorno in ogni discorso relativo all’economia, alla politica, alla vita dei cittadini.
Una realtà che è arrivata ad interessare pressocchè tutto il mondo, nata da diverse cause e che si manifesta in diversi aspetti: disoccupazione ed inoccupazione, generale aumento della povertà, un necessario bisogno di risparmiare per i cittadini e di contenere gli investimenti per le aziende.
Si tratta certamente di una situazione fortemente variegata e complessa per poter essere approfondita in questa sede; pur generalizzando, si può tuttavia individuare in un generale calo dei consumi, uno dei nodi cruciali più importanti, sia come causa, che come conseguenza della crisi stessa.
Tale aspetto genera un preoccupante ed inevitabile circolo vizioso: diminuendo i consumi, infatti, diminuiscono i profitti delle aziende, le quali necessariamente diminuiscono gli investimenti, tagliano il personale, abbassano i salari dei dipendenti, oppure, in casi più gravi e purtroppo non rari, si vedono costrette a chiudere.
Nell’attesa che l’evolversi dell’economia consenta di superare questa recessione (le previsioni parlano di uno-due anni), si può pensare di affrontare in maniera efficace la recessione da due punti di vista: quello prettamente aziendale e quello politico.
-Dal punto di vista interno alle aziende, la crisi economica spesse volte porta l’impresa a trascurare settori strategici erroneamente ritenuti poco importanti, se non addirittura “superflui”, come ad esempio il marketing e la comunicazione.
In epoca di recessione, infatti, con delle disponibilità economiche da destinare ad investimenti comprensibilmente scarse, con imprese concorrenti che incalzano e con un generale calo dei consumi, è proprio sulle strategie di marketing che l’impresa può rilanciare la propria competitività; non solo in termini di prospettive di profitto, ma anche di risparmio (basti pensare a quanto denaro l’azienda può sprecare con una campagna pubblicitaria mal progettata, piuttosto che un progetto di comunicazione in grado di “colpire” esattamente il target di interesse).
Analogo discorso può esser fatto per quanto riguarda il settore comunicazione. Nel mentre la legge 150 (Che prevede un URP, ufficio pubbliche relazioni, per ogni pubblica amministrazione o ente) viene pressocchè sistematicamente ignorata, e migliaia di laureati in scienze della comunicazione (non sono gli unici, ahinoi) continuano a chiedersi da che parte si trovino le loro opportunità di lavoro, l’area comunicazione sembra essere sempre più una chimera, una sorta di lusso riservato alle aziende più floride ed affermate.
Siamo davvero sicuri che ad un’impresa, oggi, non possa tornare utile in termini di profitto investire in consulenze con agenzie di comunicazione, oppure nell’assunzione di uno o più dipendenti in grado di curare la comunicazione aziendale, un ufficio stampa o un URP?
Assume rilievo sempre maggiore in tale periodo di recessione, inoltre, la capacità dell’azienda di riuscire ad innovare, proponendo prodotti e servizi in grado di rispondere alle esigenze dei consumatori.
Vero è che oggi le scarse disponibilità economiche delle imprese non consentono grossi investimenti nel campo dell’innovazione, tuttavia non è affatto detto che l’innovazione possa essere efficace solo se impegnativa e costosa.
Dal punto di vista politico, l’Italia, così come ogni Stato, ha previsto misure economico-politiche in grado di attutire i problemi causati dalla crisi.
I provvedimenti adottati non sembrano tuttavia in grado di intervenire in maniera netta e diretta su una delle cause principali del calo dei consumi: la quantomai evidente esiguità dei salari.
Gli sproni politici ad aumentare la propensione al consumo (si ricorderà uno spot televisivo di qualche anno fa, in cui un cittadino, facendo dei piccoli acquisti, veniva ringraziato indistintamente da tutti, in quanto stava contribuendo a far “girare l’economia”) sono destinati, ovviamente, a restare incompiuti, laddove i salari rimangano così bassi e non consentano una vita agiata o, talvolta, dignitosa.
In una nazione, l’Italia, in cui i salari dei lavoratori dipendenti sono tra i più bassi d’Europa, in cui la disoccupazione imperversa contribuendo a rendere pressocchè nullo il potere di contrattazione del lavoratore nei confronti delle aziende (tutt’altro che superato, oggi, il concetto Marxista di esercito industriale di riserva), la logica conseguenza di politiche salariali sul filo del livello di sussistenza non può che essere un generale calo dei consumi, che porta, come detto, al calo dei profitti aziendali, fino a gravare nuovamente sulle spalle dei lavoratori dipendenti, sottoforma di licenziamenti, di mancate assunzioni e di riduzioni di salario.
Cosa accadrebbe se si riuscissero ad alzare i salari, magari fissando, in termini politici, un salario minimo per ogni macro-area professionale?
Se nella nazione intera si riuscisse ad eseguire una politica di questo tipo, lo sforzo iniziale delle aziende, le quali elargirebbero ai propri dipendenti somme leggermente superiori, riuscirebbe ad attivare un circolo virtuoso il quale tornerebbe utile già nel medio-breve termine alle aziende medesime.
Lavoratori con salari anche solo leggermente più elevati, dunque famiglie in grado di arrivare alla fine del mese anche riuscendo a metter da parte qualcosa, reagirebbero naturalmente aumentando i propri consumi, riattivando magari settori dell’economia che la crisi ha offuscato o oppresso (basti pensare ai repentini cambiamenti del “paniere” Istat), anche per via del fenomeno della finanziarizzazione (ovvero solo le classi più agiate divengono sempre più ricche; non a caso uno dei pochi settori che ad oggi, in Italia, non registra bilanci negativi è il mercato del lusso), causato anch’esso dalla pochezza delle retribuzioni verso i lavoratori dipendenti.
Aumento generale dei consumi che aumenterebbe i profitti delle aziende, favorendo così gli investimenti ed anche le assunzioni.
Secondo tale approccio, le principali misure statali volte a combattere la crisi dovrebbero puntare ad aiutare le imprese in difficoltà ad elargire ai propri dipendenti l’ipotetico “salario minimo mensile”, con la certezza, come detto, di un conseguente aumento dei consumi in grado di attivare circoli virtuosi tanto per le aziende che per i lavoratori.
Le idee verso cui orientare le misure politico-economiche in questo particolare periodo storico sarebbero, dunque, tanto semplici quanto efficaci: stabilire per legge delle quote minime di salario (aumentando necessariamente le misure anti lavoro nero e le conseguenti pene) ed aiutare economicamente le imprese in difficoltà nello stipendiare i propri dipendenti.
Una reale assistenza in termini economici alle aziende, così come altre eventuali misure volte a proteggere l’economia nazionale, scongiurerebbero inoltre la “minaccia” delle aziende di delocalizzarsi in territori dal costo di mano d’opera più basso.
La considerazione di fondo rappresenta, oserei dire, una certezza: finchè in Italia gli stipendi dei lavoratori saranno così bassi è impensabile che alcuna economia interna, salvo rare eccezioni, possa girare floridamente, ed un ragionevole aumento delle quote salariali sarebbe estremamente positivo non soltanto per i lavoratori e per l’occupazione in generale, ma anche, anzi soprattutto, per le aziende.
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